venerdì, giugno 30, 2006
Giugno
di Slawka G. Scarso

Già lo sapevo che giugno sarebbe stato così.
In una città dove ogni angolo serba gelosamente un ricordo di noi due, da schiudere a tradimento al mio passaggio, i ricordi a giugno si completano del calore avvolgente di inizio estate, del sole che picchia sull’asfalto ancora brulicante di macchine, delle canzoni estive, ogni anno diverse ma sempre uguali. E degli stessi profumi caldi di quel giugno.

Ogni attimo porta con sé un’eredità che gli avvenimenti successivi hanno reso pesante, e che si traduce in un’unica frase: un anno fa a quest’ora.

Non c’è mai stato un maggio insieme, ma un giugno sì. Pieno di sorrisi sbalorditi, di quella sensazione di incredulità che capita solo quando il destino si intromette prepotentemente nella nostra vita per portare, una volta tanto, un dono sorprendentemente dolce.

I nostri sguardi, a giugno, parlavano da soli. I nostri sorrisi lo stesso.
E dicevano sempre la stessa cosa:
“Finalmente, tu.”

Ma quel giugno è passato.
Presto, spero, passerà anche questo.
 
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Ritorno in Polonia
di Slawka G. Scarso

Stazione Termini, cuccetta fino a Vienna, prenotazione obbligatoria. I miei compagni in quel primo tratto di viaggio erano tutti giovani: Fabrizio e Guido, due romani freschi di maturità, e Wojtek, un ragazzo polacco che era venuto a Roma per imparare l’italiano.

“Io sono Slawka,” ho detto terminando il giro delle presentazioni.
“Come?” hanno risposto in coro Fabrizio e Guido mentre Wojtek accennava un sorriso di approvazione. Dopo lo shock iniziale Fabrizio ha continuato: “Di che origine è?”
Allora ho spiegato che sono metà italiana e metà polacca, ma che per motivi politici la mia famiglia polacca è quasi tutta emigrata in Inghilterra. Ho aggiunto che quella era la prima volta che andavo in Polonia.

Guido aveva lo sguardo disperato di chi si aspettava la classica origine cine-televisiva post Dallas. Senza aprire bocca ha tirato fuori i panini incartati con le pagine del vocabolario di greco che non avrebbe più usato. Meglio mangiarci sopra.

“Perché hai deciso di andare a Cracovia in treno?” mi ha chiesto Guido imbarazzato dalla reazione dell’amico.
“Con l’aereo parti, vedi qualche ora di cielo e poi sei arrivato,” ho spiegato. “Il treno invece ti dà il tempo di realizzare dove stai andando.”

Era stata proprio quella la ragione della mia scelta. Da bambina mia nonna mi aveva raccontato della Polonia che aveva dovuto lasciare a 17 anni quando l’hanno fatta salire su un treno diretto in Siberia. Non era voluta tornare nel paese in cui era cresciuta neanche dopo l’89, per non rovinarsene il ricordo. I racconti nostalgici avevano quindi sostituito le mie favole della buonanotte. Con simili premesse la paura di rimanere io stessa delusa era andata di pari passo all’impazienza di vedere la Polonia. Una preparazione graduale era indispensabile.

Nel dormiveglia, grazie anche a quella percezione disorientante del movimento che solo dormire in cuccetta sa dare, mille istantanee si sono successe nella mia mente ed altrettante sensazioni contrastanti. Non sapevo più quando stavo sognando e quando stavo immaginando per l’ennesima volta quel paese che per metà mi apparteneva.
Siamo arrivati a Vienna la mattina dopo. Io e Wojtek, abbiamo salutato Fabrizio e Guido e ci siamo messi a cercare il nostro treno per Varsavia. Peccato che del treno non c’era traccia. Dopo interminabili minuti di smarrimento fra cartelli in solo tedesco ed un poco informativo impiegato dell’ufficio informazioni, abbiamo scoperto che il treno era stato cancellato a causa delle alluvioni delle settimane precedenti e che dovevamo prendere un pullman sostitutivo fino al confine con la Repubblica Ceca.

Più tardi, guardavo la grigia periferia viennese decorata di cartelloni con mucche austriache che esortavano a bere il latte ed illuminata dal neon dei McDrive. Intanto Wojtek mi raccontava di quando da piccolo si ammalava spesso e per questo l’estate lo mandavano al mare, nelle colonie del Partito sul Baltico. Aveva deciso che dovevo approfittare di quelle ore di pullman per seguire un corso intensivo sulla vita in Polonia dalla seconda guerra mondiale in poi. Barzellette sui russi incluse. Ce n’era una che ancora ricordo.
“Che tempo è ‘ho studiato il russo’ ?” mi ha chiesto Wojtek.
“Non saprei...” ho detto io, intuendo che una risposta grammaticale era fuori luogo.
“Tempo sprecato!” ha biascicato ridendo.

Wojtek mi ha anche raccontato di come alcune persone rimpiangevano il vecchio regime. Il partito aveva sempre dato lavoro a tutti, anche dove non ce n’era l’esigenza, pur di dimostrare che non esisteva disoccupazione. Erano molte le persone che avevano un’ora di lavoro da fare al giorno ma dovevano rimanere in ufficio per altre sette o più. E adesso, per queste persone, trovare la motivazione per lavorare sul serio era estremamente complicato.

Le ore sono volate tanto erano cariche di informazioni, ma è stato proprio in quel tratto di viaggio che ho cominciato a rendermi conto delle differenze fra la sua Polonia e quella che mi avevano raccontato i miei nonni. Mi ero sempre considerata metà polacca, ma cosa avevo davvero in comune con questo ragazzo o con gli altri miei coetanei di Varsavia o Danzica? Mi ero lamentata fino ad un paio di anni prima dell’aoristo greco ma sapevo forse che cosa vuol dire essere obbligati ad imparare il russo?

Quando il pullman si è fermato in una piccola stazione al confine con la Repubblica Ceca, siamo scesi e ci siamo messi in fila per il controllo dei passaporti con una compostezza che ricordava tempi ben più cupi. Arrivato il mio turno quasi non ho dovuto aprire il libretto made in U.E.. Ci sarebbe potuta essere la foto di chiunque. A Wojtek invece, il doganiere austriaco in quella mattina di fine luglio del 1997 ha chiesto dove era stato, che cosa aveva fatto, dove aveva alloggiato e se aveva lavorato per qualcuno.

Avevamo posti in vagoni diversi e, superato il controllo dei documenti, io e Wojtek ci siamo dovuti salutare. Mi ha dato un vecchio biglietto della metropolitana con su scritto il suo numero di telefono di Varsavia. Qualora ne avessi avuto bisogno.
Stavolta i passeggeri seduti vicino a me avevano all’incirca l’età dei miei genitori: una signora viennese ed una coppia di Cracovia, i signori Kowalski. Questi ultimi, dopo aver scoperto le mie origini, erano determinati a farmi parlare a tutti i costi in polacco anche se in inglese per me sarebbe stato più facile. All’inizio l’interesse con cui chiedevano della mia famiglia mi aveva messo sulle difensive. Dopotutto fra le raccomandazioni dell’infanzia, il classico “non accettare caramelle dagli sconosciuti” era risultato sicuramente meno memorabile di “non parlare con nessuno” quando questo voleva dire proteggersi da spie onnipresenti. Con l’avanzare del treno però mi sono fatta coinvolgere dal loro entusiasmo. Dopo tutto il mio polacco era così misero che difficilmente mi sarei potuta addentrare in discorsi compromettenti. Per giunta quando parlavo, i due sorridevano dicendo che le mie frasi erano piene di vocaboli che nessuno usava più da cinquant’anni. In tutto questo tempo anche la lingua si era evoluta, e di nuovo le nozioni che avevo appreso dai miei nonni mi rendevano diversa.

Sul treno ci hanno controllato nuovamente il passaporto. Quando l’ho messo via la signora Kowalski ha cominciato a ridere.
“Faresti meglio a lasciarlo a portata di mano. Ce lo chiederanno ancora diverse volte,” ha spiegato. Ha anche aggiunto che prima, in quello stesso tratto, ad ogni controllo il treno si fermava in mezzo alla campagna e si sentivano i passi dei soldati sopra il tetto del treno ed il bussare di altri sotto, per controllare che non ci fossero clandestini.

Finalmente il signor Kowalski guardando fuori dal finestrino mi ha detto orgoglioso:
“Ecco, siamo arrivati in Polonia”.
Guardando fuori dal finestrino ho notato le sagome in controluce delle fabbriche e dei loro fumi scuri, stagliarsi contro il paesaggio boschivo. Ed una serie inconsueta di Fiat 126 lungo le strade alberate che correvano parallele alla ferrovia. Ne avrò contate una decina in pochi minuti.

Ero delusa dalla vista di quella Polonia? Certo non corrispondeva alle descrizioni di mia nonna, ma quello che prevaleva in me, man mano che ci avvicinavamo a Cracovia, non era la delusione del confronto con i racconti della buonanotte. Sentivo piuttosto una netta estraneità rispetto ai polacchi, che per giunta si aggiungeva a quella nei confronti degli italiani “al cento per cento” alla quale mi ero faticosamente abituata. Il viaggio in treno insomma, contrariamente a quanto avevo sperato, non era riuscito affatto a prepararmi a muovere i miei primi passi polacchi. Come avrei resistito in quel paese per un mese intero?

Scesa dal treno ho salutato i signori Kowalski e mi sono incamminata verso la fermata del tram diretto al dormitorio universitario di Piast, dove dovevo alloggiare. Alla fermata, una ragazza bionda cercava qualcosa nello zaino appoggiato alla pensilina. Quando sono arrivata ha alzato lo sguardo e abbiamo subito notato che avevamo gli zaini quasi identici.

“Vai a Piast?” mi ha chiesto in inglese. Ho annuito e dentro di me ho sorriso nel notare che le prime parole che mi erano state rivolte appena arrivata a Cracovia, malgrado il corso di polacco di sopravvivenza di mia madre e quello intensivo dei Kowalski, fossero state in inglese.

Durante il tragitto in tram, fra le mille deviazioni causa lavori in corso, ho scoperto che Malgorzata, così si chiamava la mia nuova compagna di viaggio, era venuta in aereo da Toronto passando per Varsavia. I suoi genitori, entrambi polacchi, si erano trasferiti in Canada all’inizio degli anni Settanta, un paio di anni prima che lei nascesse.

Al dormitorio, mentre aspettavamo di registrarci fra i nuovi arrivi, abbiamo sbirciato fra le mappe di Cracovia ed i depliant delle gite da fare a Wieliczka e sui monti Tatra disposti sul bancone della reception. C’erano anche alcune cartoline in vendita. Una di queste raffigurava una bambina con un vestito tradizionale, con il gilè nero arricchito da ricami floreali e bordi rossi.

“Quando ero piccola avevo un vestito simile a quello,” mi ha detto Malgorzata indicando la cartolina.
“Anch’io,” le ho risposto sorpresa.

E’ stato allora che ho capito. Forse non avevo molto in comune con i miei coetanei polacchi, ma ero parte di un gruppo eterogeneo ben più ampio. Un gruppo formato da canadesi, inglesi, americani, italiani e così via, tutti con un pizzico di Polonia nel sangue, che come me si erano ripetutamente interrogati sulla propria nazionalità.

E quell’estate, in Polonia, abbiamo scoperto di formare una nazione tutta nostra, priva di confini fisici e nella quale gli elementi che ci accomunavano erano pochissimi ma pieni di significato: l’origine polacca di uno o entrambi i genitori, quel modo diverso di passare la Vigilia di Natale, con dodici portate quanti sono gli apostoli e l’ostia non consacrata da scambiarsi all’inizio della cena, e magari un nome che nei nostri rispettivi paesi, quelli che alla fine erano casa, nessuno capiva.

Gennaio 2004
 
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venerdì, giugno 16, 2006
Verrà
di Slawka G. Scarso

Verrà
il giorno in cui
solo alcune cose
mi ricorderanno
di lui.
 
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giovedì, giugno 15, 2006
Il cuore
di Slawka G. Scarso

Il cuore è un muscolo strano, diverso.

Il cuore non è un muscolo infrangibile, ma si può riparare. Quando si rompe qualcosa, con il tempo dicono che il dolore passa. Con il tempo e con un by-pass. Così si può evitare di passare sempre attraverso il ricordo di ciò che ce l'ha fatto rompere. Il ricordo resta nel cuore, la cicatrice nel muscolo, ma almeno con un by-pass si può aggirare l'ostacolo.

Il mio cuore in questo periodo vola basso. All'altezza del tubo di scappamento delle macchine, del carrello del supermercato, di una panchina sotto il sole. Ogni tanto incappa in un tombino. Strapiomba.

Il mio by-pass non è ancora arrivato.
 
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lunedì, giugno 05, 2006
Operatore assistenziale multifunzionale vigilante
di Slawka G. Scarso

Girarsi i pollici non è poi così semplice come uno possa pensare. O meglio, in realtà esistono molte tecniche, molte varianti dello stesso esercizio che uno spesso trascura. Ad esempio si può invertire il verso in cui far girare i pollici. Oppure, meno banalmente, fare tre giri, fermarsi, contare fino a dieci e ricominciare. Si può contare quanti giri si fa in un minuto. O ancora, e questo è l’esercizio più difficile di tutti, si può girare un pollice solo e tenere immobile l’altro. Per riuscire a fare questo esercizio ci vogliono anni di pratica. Ma tanto il tempo non manca. La disoccupazione è anche questo.

Il sindacato dice che il lavoro è diminuito da quando ci hanno cambiato nome. Tutta questa moda per i termini “operatore ecologico” e simili, quello che in inglese viene definito politically correct language, ha fatto sì che la gente non ci assume più. Dicono che ci vuole troppo tempo a dire “operatore assistenziale multifunzionale vigilante”, e la gente ora, si sa, va sempre troppo di fretta. Figuriamoci se vuole sprecare minuti preziosi a pronunciare queste parole. Alcuni sindacalisti hanno persino proposto di utilizzare una sigla, OAMV, ma era troppo difficile da pronunciare ed il risultato è stato addirittura un crollo ulteriore.

Secondo me questo problema invece è banalmente legato all’abbassamento della natalità. Alla cosiddetta crescita zero. Se non nascono più bambini, come facciamo a lavorare?

Ricordo i bei tempi quando il lavoro non mancava. Gli stratagemmi che trovavo per comprare il gelato ai bambini. O ancora quelli che dovevo escogitare per togliere il minestrone dal menù. O quando li accompagnavo al parco giochi e spingevo l’altalena. Quanto ci divertivamo insieme! A volte ridevamo fino alle lacrime. Ricordo persino quando mi chiedevano di guardarli al mare, mentre facevano le capriole o le verticali in acqua che a malapena si vedevano i polpacci. E ricordo quando nelle notti fredde facevo nevicare così che il giorno dopo non dovevano andare a scuola. Solo che alle volte non mi riusciva bene, del resto non sono mica onnipotente, e con le prime ore della mattina la neve si scioglieva comunque, o magari non attaccava proprio, e allora dovevano andare a scuola. Ma erano felici lo stesso. Eh già, perché bastava che avessi fatto nevicare per poco.

Adesso non è più così. Il telefono non squilla mai. Abbiamo persino messo la connessione ad internet per la posta elettronica – visti i tempi purtroppo non ci è concesso di navigare perché la direzione vorrebbe contenere i costi. Similmente ci hanno dato dei telefoni cellulari (come se ci spostassimo mai da questi cubicoli bianchi) che possono solo ricevere telefonate. Tutto questo nella speranza che adattandoci ai nuovi modi di comunicare le richieste di servizi sarebbero aumentate. Ma nulla. La batteria del mio cellulare resta carica per mesi, tanto non viene mai utilizzata. E la mia casella di posta elettronica è fissa su “Nessun nuovo messaggio”.

No, la soluzione è un’altra. Dobbiamo cominciare a promuovere i nostri servizi in modo diverso. Perché, diciamoci la verità, ci siamo un po’ adagiati sugli allori. Insomma, ci è sempre andato bene che i nostri servizi fossero dedicati solo ai bambini, perché tanto di famiglie con sei, otto figli ce n’erano in abbondanza. Ma ora che la media è di 1,3 bambini circa a famiglia, dobbiamo adottare una strategia diversa e partire da quel vecchio proverbio, necessità fa virtù. Dobbiamo ricordare a tutti che anche da grandi possono avere bisogno dei nostri servizi. Non solo, che siamo tipi abbastanza eclettici da poterli aiutare in ogni settore. Problemi sul lavoro? Ci pensiamo noi! Problemi in amore? Siamo a disposizione 24 ore su 24. Potremmo fare così tanto per dare una mano, se non per risolvere completamente i loro problemi. Dopo tutto la neve certe volte si scioglie subito, ma la facciamo comunque cadere, no? E magari un primo passo per riuscire in questa nuova missione sarebbe quello di tornare al nostro vecchio nome. Angeli custodi.
 
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domenica, giugno 04, 2006
Pane croccante
Pane croccante
Pomodori succosi
Pranzo d’estate
 
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venerdì, giugno 02, 2006
Tutto torna
Il piede affonda appena sulla banchina del 38 a Piazza dei Cinquecento. In cielo neppure una nuvola, nessun segno che possa indurre a pensare che abbia piovuto. Ma lo starnazzare minaccioso di stormi hitchcockiani nascosti (per così dire) tra gli alberi e l’odore acre del guano fanno rimpiangere l’ombrello lasciato a casa.

Cerco di puntare dove l’asfalto si vede ancora e, balzo dopo balzo, mi dirigo verso la stazione Termini, insieme al resto del branco di antilopi saltanti.

Varcate le grandi porte mi faccio strada in mezzo alla folla. Mi insinuo fra comitive di turisti smarriti e li sorpasso, con salti olimpionici scavalco zaini enormi che hanno attraversato l’Atlantico e già visto mezza Europa, serpeggio fra i pendolari decelerati che sanno di aver perso il treno, infine devio con uno zigzag un paio di malintenzionati che tentano di placcarmi. Il tutto nell’indispensabile apnea che segue una giornata che è stata per tutti di lavoro sudato, letteralmente.

E ci siamo. Davanti a me, e ad un centinaio di altre persone, l’enorme tabellone delle partenze. Le caselle cominciano a ruotare all’impazzata e appare un treno per Napoli – in molti collezionano le loro cose e si dirigono verso il binario 7. Nel frattempo altri viaggiatori si uniscono a noi. Per qualche minuto le caselle restano immobili. L’attesa cresce, poi di nuovo girano ed ecco che un altro gruppo, stavolta più sparuto, si allontana facendo posto ai nuovi arrivati.

Improvvisamente la voce metallica dagli altoparlanti annuncia che “il treno per Albano Laziale è in partenza dal binario 24”. Solo allora mi accorgo che in un angolo del tabellone il mio treno è già indicato. L’avevo forse rimosso? Forse il cervello aveva rifiutato di recepire quell’informazione? Possibile, perché chiunque ha preso un treno per i Castelli Romani sa che il binario 24 è ai cosiddetti “Laziali” e soprattutto sa che è così lontano che di fatto è un’altra stazione. Una succursale di Termini. Non solo, se la voce ha detto che il treno è in partenza significa che ho meno di cinque minuti per salire a bordo. Non resta che tirar fuori la divisa da donna bionica.

Scavalco qualche passante attempato. Schizzo via davanti alla polizia ferroviaria come un borseggiatore tallonato. Evito per poco una crisi alimentare quando manco un carrello con panini e bevande destinato ad un Eurostar. Finalmente arrivo davanti al deposito dei bagagli, lì dove inizia quel marciapiede che corre a perdita d’occhio fino ai “Laziali”. Catapultata in un esercizio di prospettiva, mi preparo a lanciarmi verso il punto di fuga.

Stavolta il binario è sgombro, o quasi. Biglietto da vidimare già in mano. Posizione aerodinamica. Schiena bassa. Testa in linea con le spalle. Braccia piegate, serrate lungo i fianchi. Parto.

Dopo cinquanta metri, con falcata sgraziata ma efficace, supero un paio di pendolari. Piegati su se stessi cercano di riprendere fiato. E’ inutile. Passeranno qui la notte. Sghignazzo senza pietà. Ma poco. O mancherà il fiato anche a me. L’importante è che mi vedano mentre rido di loro.

Continuo a correre. Lo sguardo è fisso sull’orologio nero appeso ad una colonna.

Altri cento metri. Annaspo. Un pugno alla milza. Un altro ancora. Ma potevo iscrivermi in palestra? Mi raggiunge un carrello snodabile pieno di bagagli e lo guardo mentre mi passa davanti. In confronto, sto correndo su un tapis-roulant. Se ne accorgono anche i due uomini arancione a bordo che ridono di me. Meschini. Tutto torna. Ma forse li hanno mandati i due pendolari piegati. Tutto torna davvero. Mi pento, ma non mi fermo. Non ora. La mia milza sarà pure un pallone, ma il punto di fuga è sempre più vicino. Il biglietto pronto da vidimare sta ormai stingendo nella mano sudata. Rallento un poco, me lo posso permettere, sono quasi arrivata, lo faccio solo per questo. Altrimenti potrei andare avanti così per ore.

Gli ultimi metri sono i più difficili. Psicologicamente, è chiaro. Mi sembra di vedere le porte che si chiudono davanti a me. Le visualizzo. Per un attimo la fantasia diventa realtà. Ma ce la faccio. Timbro il biglietto e salgo sul treno.

Riprendo fiato, con dignità. Tutti mi guardano ma so che presto il rossore acceso sulla faccia si stempererà e intanto mi siedo. Poi la voce metallica dagli altoparlanti annuncia:

“Siamo spiacenti di informare i signori viaggiatori che a causa di un guasto improvviso sulla linea per Ciampino il treno diretto ad Albano Laziale subirà un ritardo di circa 30 minuti.”

Tiro fuori un libro e comincio a leggere facendo finta di nulla. Cinque minuti dopo i due pendolari piegati, rosati e riposati si siedono davanti a me.

Slawka G. Scarso
 
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Ode a tre puntini
In fila indiana,
la terzina si insinua
dove è più comodo allo scrittore.

Tre puntini,
Abusati più di un punto esclamativo,
Licenza poetica per chi non ha sufficienti parole,
Bavaglio per chi ha paura di dire troppo.

Ossigeno per chi deve riprendere fiato,
Limbo per chi si ostina ad interpretarli
Sperando che fra un punto e l’altro
Siano rimasti in sospeso i pensieri
Che vorrebbe sentirsi dedicare,

Tentando di dimenticare che
Visti di profilo,
Sono colonne portanti di un discorso,
Visti dall’alto,
Nient’altro che tre puntini...

Dicembre 2003
 
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