di Slawka G. Scarso
Stazione Termini, cuccetta fino a Vienna, prenotazione obbligatoria. I miei compagni in quel primo tratto di viaggio erano tutti giovani: Fabrizio e Guido, due romani freschi di maturità, e Wojtek, un ragazzo polacco che era venuto a Roma per imparare l’italiano.
“Io sono Slawka,” ho detto terminando il giro delle presentazioni.
“Come?” hanno risposto in coro Fabrizio e Guido mentre Wojtek accennava un sorriso di approvazione. Dopo lo shock iniziale Fabrizio ha continuato: “Di che origine è?”
Allora ho spiegato che sono metà italiana e metà polacca, ma che per motivi politici la mia famiglia polacca è quasi tutta emigrata in Inghilterra. Ho aggiunto che quella era la prima volta che andavo in Polonia.
Guido aveva lo sguardo disperato di chi si aspettava la classica origine cine-televisiva post Dallas. Senza aprire bocca ha tirato fuori i panini incartati con le pagine del vocabolario di greco che non avrebbe più usato. Meglio mangiarci sopra.
“Perché hai deciso di andare a Cracovia in treno?” mi ha chiesto Guido imbarazzato dalla reazione dell’amico.
“Con l’aereo parti, vedi qualche ora di cielo e poi sei arrivato,” ho spiegato. “Il treno invece ti dà il tempo di realizzare dove stai andando.”
Era stata proprio quella la ragione della mia scelta. Da bambina mia nonna mi aveva raccontato della Polonia che aveva dovuto lasciare a 17 anni quando l’hanno fatta salire su un treno diretto in Siberia. Non era voluta tornare nel paese in cui era cresciuta neanche dopo l’89, per non rovinarsene il ricordo. I racconti nostalgici avevano quindi sostituito le mie favole della buonanotte. Con simili premesse la paura di rimanere io stessa delusa era andata di pari passo all’impazienza di vedere la Polonia. Una preparazione graduale era indispensabile.
Nel dormiveglia, grazie anche a quella percezione disorientante del movimento che solo dormire in cuccetta sa dare, mille istantanee si sono successe nella mia mente ed altrettante sensazioni contrastanti. Non sapevo più quando stavo sognando e quando stavo immaginando per l’ennesima volta quel paese che per metà mi apparteneva.
Siamo arrivati a Vienna la mattina dopo. Io e Wojtek, abbiamo salutato Fabrizio e Guido e ci siamo messi a cercare il nostro treno per Varsavia. Peccato che del treno non c’era traccia. Dopo interminabili minuti di smarrimento fra cartelli in solo tedesco ed un poco informativo impiegato dell’ufficio informazioni, abbiamo scoperto che il treno era stato cancellato a causa delle alluvioni delle settimane precedenti e che dovevamo prendere un pullman sostitutivo fino al confine con la Repubblica Ceca.
Più tardi, guardavo la grigia periferia viennese decorata di cartelloni con mucche austriache che esortavano a bere il latte ed illuminata dal neon dei McDrive. Intanto Wojtek mi raccontava di quando da piccolo si ammalava spesso e per questo l’estate lo mandavano al mare, nelle colonie del Partito sul Baltico. Aveva deciso che dovevo approfittare di quelle ore di pullman per seguire un corso intensivo sulla vita in Polonia dalla seconda guerra mondiale in poi. Barzellette sui russi incluse. Ce n’era una che ancora ricordo.
“Che tempo è ‘ho studiato il russo’ ?” mi ha chiesto Wojtek.
“Non saprei...” ho detto io, intuendo che una risposta grammaticale era fuori luogo.
“Tempo sprecato!” ha biascicato ridendo.
Wojtek mi ha anche raccontato di come alcune persone rimpiangevano il vecchio regime. Il partito aveva sempre dato lavoro a tutti, anche dove non ce n’era l’esigenza, pur di dimostrare che non esisteva disoccupazione. Erano molte le persone che avevano un’ora di lavoro da fare al giorno ma dovevano rimanere in ufficio per altre sette o più. E adesso, per queste persone, trovare la motivazione per lavorare sul serio era estremamente complicato.
Le ore sono volate tanto erano cariche di informazioni, ma è stato proprio in quel tratto di viaggio che ho cominciato a rendermi conto delle differenze fra la sua Polonia e quella che mi avevano raccontato i miei nonni. Mi ero sempre considerata metà polacca, ma cosa avevo davvero in comune con questo ragazzo o con gli altri miei coetanei di Varsavia o Danzica? Mi ero lamentata fino ad un paio di anni prima dell’aoristo greco ma sapevo forse che cosa vuol dire essere obbligati ad imparare il russo?
Quando il pullman si è fermato in una piccola stazione al confine con la Repubblica Ceca, siamo scesi e ci siamo messi in fila per il controllo dei passaporti con una compostezza che ricordava tempi ben più cupi. Arrivato il mio turno quasi non ho dovuto aprire il libretto made in U.E.. Ci sarebbe potuta essere la foto di chiunque. A Wojtek invece, il doganiere austriaco in quella mattina di fine luglio del 1997 ha chiesto dove era stato, che cosa aveva fatto, dove aveva alloggiato e se aveva lavorato per qualcuno.
Avevamo posti in vagoni diversi e, superato il controllo dei documenti, io e Wojtek ci siamo dovuti salutare. Mi ha dato un vecchio biglietto della metropolitana con su scritto il suo numero di telefono di Varsavia. Qualora ne avessi avuto bisogno.
Stavolta i passeggeri seduti vicino a me avevano all’incirca l’età dei miei genitori: una signora viennese ed una coppia di Cracovia, i signori Kowalski. Questi ultimi, dopo aver scoperto le mie origini, erano determinati a farmi parlare a tutti i costi in polacco anche se in inglese per me sarebbe stato più facile. All’inizio l’interesse con cui chiedevano della mia famiglia mi aveva messo sulle difensive. Dopotutto fra le raccomandazioni dell’infanzia, il classico “non accettare caramelle dagli sconosciuti” era risultato sicuramente meno memorabile di “non parlare con nessuno” quando questo voleva dire proteggersi da spie onnipresenti. Con l’avanzare del treno però mi sono fatta coinvolgere dal loro entusiasmo. Dopo tutto il mio polacco era così misero che difficilmente mi sarei potuta addentrare in discorsi compromettenti. Per giunta quando parlavo, i due sorridevano dicendo che le mie frasi erano piene di vocaboli che nessuno usava più da cinquant’anni. In tutto questo tempo anche la lingua si era evoluta, e di nuovo le nozioni che avevo appreso dai miei nonni mi rendevano diversa.
Sul treno ci hanno controllato nuovamente il passaporto. Quando l’ho messo via la signora Kowalski ha cominciato a ridere.
“Faresti meglio a lasciarlo a portata di mano. Ce lo chiederanno ancora diverse volte,” ha spiegato. Ha anche aggiunto che prima, in quello stesso tratto, ad ogni controllo il treno si fermava in mezzo alla campagna e si sentivano i passi dei soldati sopra il tetto del treno ed il bussare di altri sotto, per controllare che non ci fossero clandestini.
Finalmente il signor Kowalski guardando fuori dal finestrino mi ha detto orgoglioso:
“Ecco, siamo arrivati in Polonia”.
Guardando fuori dal finestrino ho notato le sagome in controluce delle fabbriche e dei loro fumi scuri, stagliarsi contro il paesaggio boschivo. Ed una serie inconsueta di Fiat 126 lungo le strade alberate che correvano parallele alla ferrovia. Ne avrò contate una decina in pochi minuti.
Ero delusa dalla vista di quella Polonia? Certo non corrispondeva alle descrizioni di mia nonna, ma quello che prevaleva in me, man mano che ci avvicinavamo a Cracovia, non era la delusione del confronto con i racconti della buonanotte. Sentivo piuttosto una netta estraneità rispetto ai polacchi, che per giunta si aggiungeva a quella nei confronti degli italiani “al cento per cento” alla quale mi ero faticosamente abituata. Il viaggio in treno insomma, contrariamente a quanto avevo sperato, non era riuscito affatto a prepararmi a muovere i miei primi passi polacchi. Come avrei resistito in quel paese per un mese intero?
Scesa dal treno ho salutato i signori Kowalski e mi sono incamminata verso la fermata del tram diretto al dormitorio universitario di Piast, dove dovevo alloggiare. Alla fermata, una ragazza bionda cercava qualcosa nello zaino appoggiato alla pensilina. Quando sono arrivata ha alzato lo sguardo e abbiamo subito notato che avevamo gli zaini quasi identici.
“Vai a Piast?” mi ha chiesto in inglese. Ho annuito e dentro di me ho sorriso nel notare che le prime parole che mi erano state rivolte appena arrivata a Cracovia, malgrado il corso di polacco di sopravvivenza di mia madre e quello intensivo dei Kowalski, fossero state in inglese.
Durante il tragitto in tram, fra le mille deviazioni causa lavori in corso, ho scoperto che Malgorzata, così si chiamava la mia nuova compagna di viaggio, era venuta in aereo da Toronto passando per Varsavia. I suoi genitori, entrambi polacchi, si erano trasferiti in Canada all’inizio degli anni Settanta, un paio di anni prima che lei nascesse.
Al dormitorio, mentre aspettavamo di registrarci fra i nuovi arrivi, abbiamo sbirciato fra le mappe di Cracovia ed i depliant delle gite da fare a Wieliczka e sui monti Tatra disposti sul bancone della reception. C’erano anche alcune cartoline in vendita. Una di queste raffigurava una bambina con un vestito tradizionale, con il gilè nero arricchito da ricami floreali e bordi rossi.
“Quando ero piccola avevo un vestito simile a quello,” mi ha detto Malgorzata indicando la cartolina.
“Anch’io,” le ho risposto sorpresa.
E’ stato allora che ho capito. Forse non avevo molto in comune con i miei coetanei polacchi, ma ero parte di un gruppo eterogeneo ben più ampio. Un gruppo formato da canadesi, inglesi, americani, italiani e così via, tutti con un pizzico di Polonia nel sangue, che come me si erano ripetutamente interrogati sulla propria nazionalità.
E quell’estate, in Polonia, abbiamo scoperto di formare una nazione tutta nostra, priva di confini fisici e nella quale gli elementi che ci accomunavano erano pochissimi ma pieni di significato: l’origine polacca di uno o entrambi i genitori, quel modo diverso di passare la Vigilia di Natale, con dodici portate quanti sono gli apostoli e l’ostia non consacrata da scambiarsi all’inizio della cena, e magari un nome che nei nostri rispettivi paesi, quelli che alla fine erano casa, nessuno capiva.
Gennaio 2004